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Le origini di Cagli e già le sue scelte

a cura di Raffaele De Grada

Corrado Cagli aveva soltanto sedici anni quando affrescò la palestra Giulio Giordani in Roma. Si risale al lontano 1927.
Allora, tra i pittori romani che sono passati dalla cronaca alla storia, nessuno pensava ai muri da affrescare. Il grido di Scipione sarebbe stato soffocato di li poco dal dilagare del male fisico, che corrispondeva all'oscurarsi del mondo; ma fai riparava nell'ineffabile rifugio del senso che trasfigura una prostituta, un fiore marcio, una stoffa odorante di polvere. Nel 1928 usciva al pubblico - dopo l'edizione privata, e vagabonda, del 1914 - il libretto dell'ultimo poeta del decadentismo italiano, i Canti Orfici di Dino Campana. A un giovane artista di quel tempo si aprivano due strade: la continuità stanca del decadentismo o il mito neoromano predicato ormai dal Novecento. Ho conosciuto Cagli pochi anni dopo, quando era già famoso come pittore murale (una palestra a Roma, una villa a Umbertide e pareti alla Mostra romana dell'Edilizia, 1932, e alla Quinta Triennale di Milano e vasti mosaici a Terni). Aveva già insegnato ceramica in una fabbrica umbra e, come pittore di cavalletto, aveva già esposto a Roma, a Milano ed era invitato con una sala alla Seconda Quadriennale. Aveva va appena venticinque anni e si poneva problemi assai diversi da quelli degli altri giovani che conoscevo. Anche lui aveva un amore appassionato per la sua città, la Roma barocca degli " angiolotti sotto li frontoni " del turgido verso belliano, visitati uno per uno nelle passeggiate notturne da Piazza di Trevi alla Flaminia, anche a lui piaceva il senso remoto, piranesiano, delle rovine del Foro e il patetico popolaresco delle piazze trasteverine. Ma Cagli sentiva tutto ciò come suggestiva letteratura, un frugar nel passato, un nascondersi nelle memorie.
Il suo impegno lo portava molto indietro, all'epoca in cui le architetture non erano un retorico motivo di paesaggio, per i pittori, né traduzione statica dell'idolatria modernista della macchina, per gli architetti, ma espressione immediata, in sintesi con la pittura e la scultura, di una civiltà che ha un futuro, una prospettiva, come quella comunale dei maestri comacini.
Perciò Cagli non legò molto con i più tipici romani. Ebbe a Roma dei fedeli - Capogrossi, Cavalli, Janni - e dei seguaci - Sclavi, Giovanni D'Aroma. S'incontrò poco con Mafai, la cui poetica era cosi diversa dalla sua. E, con tutta naturalezza, si volse verso i gruppi milanesi.
Quali gruppi? Non certo verso i novecentisti. Perché se è vero che la visione di Cagli tendeva a un'alta decorazione, assolutamente antitetica alla forma fradicia e decomposta del decadentismo Scipione-Mafai, il giovane artista era arrivato a quella visione per tutt'altra strada dei novecentisti.

I novecentisti avevano raggiunto la composizione per un processo culturale di reazione alle avanguardie. Per vincere la crisi del primo ventennio del secolo, l'avevano soffocata. "Chi si è formato in Europa nei primi due decenni del secolo, ha dovuto rilevare attorno a sé un cosi radicale, complessa, concreta crisi di cultura, da persuadersi, fin dall'inizio, che validi potevano essere non un suo rigetto di massima o il mito di una sua soluzione ideale, ma il suo riconoscimento e la sua analisi spregiudicata e profonda, al punto di porne in luce il senso positivo" (A. Banfi, La ricerca della realtà, 1959). I novecentisti, insofferenti di una analisi che li avrebbe portati a conclusioni scomode, avevano preferito, con Waldemar George e Soffici, annegarla nel " ritorno all'ordine ", dilagante in tutta Europa con e oltre il fascismo.
Cagli, non dimentichiamo, aveva ventisette anni al tempo della Quinta Triennale e della polemica "Muri ai pittori". Era un giovane genuino e polemico e se non poteva simpatizzare coi "chiaristi" lombardi del napoletano-torinese Edoardo Persico, per ragioni opposte a quelle che l'avevano portato dal cupo tonalismo dei romani non perciò avrebbe accettato la pigra soluzione del novecentismo. Anche nella pratica della pittura troppe cose lo allontanavano. "Muri ai pittori", diceva anche Carrà. Ma Ghiringhelli acutamente notava, a proposito degli affreschi alla Triennale, che un affresco non voleva dire un quadro portato sul muro. Funi cominciava allora la sua notevole storia di affrescatore. Ma Cagli precisava che non è con il bozzetto, seguito dal cartone e dallo spolvero, che si ricrea il Rinascimento, che si ottiene la perfezione dello stile.
Con alcuni artisti del "Novecento" Cagli tuttavia ha sentito qualche affinità, con quelli che non avevano un passato da rinnegare: con Sironi, per quel senso di ciclo che è proprio al pittore che ha continuato nel quadro di cavalletto la composizione a ripetizione dell'affresco; con Arturo Martini scultore per la causticità dell'immagine, tutta protesa al racconto e alla polifonia.
La posizione culturale di Cagli in quegli anni è assolutamente originale e difficilmente comprensibile anche per coloro che, con moderna sensibilità, vedono tutto il rinnovamento nello schema I Sei di Torino-Scuola romana-Corrente. Cagli condivide l'idea, comune a novecentisti e antinovecentisti, del " superaménto delle forme pure " (proprie dell'asse incognito Mondrian-Morandi), si leva contro il frammentismo di eredità avanguardistica (Lacerba-postimpressionismo), crede al concetto della autentica tradizione italiana di
"unità delle arti", con un tale vigore che lui, convinto fautore della pittura ciclica (cioè dell'affresco a storie da Giotto a Piero), non esita a dichiarare che questo senso del " primordio ", che avrebbe mutato il volto dell'arte italiana, era proprio del nostro Paese affermando che per coloro che non hanno la nostra tradizione (i nordamericani p.e.) la volontà della pittura murale sarebbe stata soltanto un vezzo culturale e snobbistico. Questa tesi avrebbe potuto essere controbattuta - è vero da qualche esempio contrario: le pareti " primordiali " che il messicano Diego Rivera andava dipingendo in quegli stessi anni. Ma questi sono particolari che perdono di importanza quando si valuta la difficoltà - vorrei dire l'eroismo - di un giovane che, intorno al 1930, sentisse ugualmente prevalenti sia il rifiuto del " neoformalismo classicheggiante e arcaico ", di cui si riempivano le fosse novecentesche, sia lo svuotamento delle " sorti progressive " dell'arte iniziatasi con gl'impressionisti e che era andata disfacendosi fino alla pagina bianca di Mondrian.
Oltre il ripiegamento novecentesco, Cagli inseguiva il miraggio del " primordio ", idea di cui egli convinse l'intelligenza di Massimo Bontempelli di cui era nipote e finalmente tutto il gruppo milanese che, con Ciliberti e Ravasenga, m un modo invero un poco confuso, creò la rivista, che visse pochi numeri, di'" Valori primordiali " e che tuttavia chiude l'epoca iniziata da " Valori plastici ". Poi ci sarà Corrente.
La " movenza di primordio " doveva vincere prima di tutto la tendenza di ripiego che rinchiudeva le velleità novecentiste, proprio in quegli anni, nella pittura di cavalletto di tradizione ottocentesca. L'aria del tempo, dopo la vittoria fascista anche nel campo della cultura, portava a tarpare le ali delle avanguardie nordiche, in esilio qui da noi, e ad ammorbidire nel flusso del divenire la volontà di scoperte sempre più avanzate che ci veniva dall'Ottocento.
Non soltanto in pittura e in scultura. L'evocazione dei miti, classici o barbarici, da Carducci a D'Annunzio, aveva prostrato la nostra letteratura, che era rimasta, nella sua parte più sincera, sola contro l'inevitabile dolore dell'uomo. "Ultima corsa contro il dolore" aveva chiamato Umberto Saba le sue Parole (1935). E contro l'esperienza del bene e del male la vita non più come mito, magari mediterraneo, ma soltanto come primordio, riusciva soltanto, occasionalmente, a stupire per qualche cosa di inesemplato. Ma la felicità possibile era sempre frammento, che portava in seno il suo contrario, l'impossibilità di un bene stabile e la conseguente angoscia. In musica, ali stessi che con un complesso gioco d'intelligenza avevano tentato di superare il sensibilismo impressionista - da Strawinskj a Hindemith, a Paulenc -, riproponevano il problema di una forma precisa e quindi il ritrovamento di una classicità polifonica.
Cagli, molto vicino a letterati e musicisti, da Bontempelli a Libero De Libero, da Petrassi a Della Piccola, affronta la pittura murale con l'intenzione di portare la febbre moderna a una visione più lucida e grandiosa com'è dell'organismo che, in stato d'eccitazione, coglie con più intensità il reale. Tenta di superare il frammento che segue al frammento, senza un principio e una fine, cori l'opera maggiore (del tempo maggiore, avrebbe detto Bo), con un preciso significato storico, frutto della dilatazione dei particolare nell'assoluto. C'era in questo giovane una coscienza acuta che per fermare la decadenza contemporanea occorresse distogliersi dalle sirene della musicalità kandinskjana, dunque, non coi mezzi del sentimento ottocentesco, ma con quelli della ragione moderna.
E fu naturale l'incontro con i possessori dei muri da dipingere, non tanto gli enti pubblici commissionari, quanto i veri padroni, gli architetti. Ma l'architettura pubblica era allora in mano agli uomini del Novecento: Marcello Piacentini, Giovanni Mutio, Gio Ponti, per non dire i precedenti Bazzani, Basile, Brasini, Stacchini, Coppedè. Rivolgersi ai " razionalisti ", con tutti i pericoli che Cagli vide bene fin da principio, non era una scelta ma una necessità.
Fu gran merito di Cagli di essere stato tra i pochi in quegli anni a lottare sui due fronti, nei confronti degli architetti come dei pittori. Proprio come in pittura la sua "volontà di potenza" e l'aspirazione ciclica lo portava al superamento della visione impressionistica e all'approfondimento della sensibilità in quella forma di misticismo estetico, non dissimile da quello di certe poetiche romantiche, che egli chiamava "fantasia dell'infinito", cosi in architettura, disciplina della quale egli si sentiva direttamente investito, Cagli è stato tra i primi ad avvertire l'immenso pericolo che il "razionale", proprio per quel tanto di utopia della perfezione che dava impulso alla sua ricerca, diventasse una nuova metafisica, astratta dalla personalità umana, con il rischio che questa estetica nordica (De Stijl-Bauhaus), con quel tanto di settario e avveniristico che i precedenti ottocenteschi (Morris-Perret-Garnier) potevano suggerirgli, affidasse alle tecniche a un malinteso utilitarismo (il funzionalismo) la sostituzione della inalienabile suggestione della fantasia e della personalità. Anche l'arte correva il rischio di diventare vittima di un equivoco progressismo, in cui il progresso avverrebbe in sé, astratto dagli uomini e dal loro insostituibile piacere estetico.

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